lunedì 15 giugno 2020

STEP#25-IL DIALOGO

Giacomo Leopardi - Operette Morali

Leopardi affronta il tema del suicidio, immaginando che Plotino e Porfirio, due filosofi neoplatonici vissuti tra il II e III secolo d. C. dibattano sulla legittimità di porre fine volontariamente ai propri giorni. Porfirio, stanco e annoiato della vita, rivela a Plotino l’intenzione di uccidersi. Plotino adduce all’amico una serie di ragioni per convincerlo a recedere dal suo funesto proposito, ragioni che si rivelano tutte fallaci nell’argomentazione di Porfirio. Solo l’ultima tiene: il saggio non può disinteressarsi del dolore che con il procacciarsi volontariamente la morte arrecherebbe alle persone che lo amano. Il vincolo d’amore tra gli uomini è l’unica difesa da opporre all’infelicità della vita.


                                       


                                                     Dialogo di Plotino e di Porfirio

Una volta, avendo io maturato la decisione di togliermi la vita, essendosene accorto Plotino, mi raggiunse all’improvviso mentre ero a casa e mi disse che quel mio proposito non nasceva dal ragionamento di una mente sana, ma da una qualche indisposizione malinconica. E mi costrinse a cambiare parere. Così narra Porfirio, nella Vita di Plotino. Ugualmente Eunapio nella Vita di Porfirio, dove aggiunge che Plotino, in una sua opera, riferiva i ragionamenti tenuti con Porfirio in quell’occasione.

Plotino: Porfirio, tu sai che ti sono amico e sai quanto, perciò non devi meravigliarti se osservo le tue azioni, le tue parole e il tuo stato con attenzione, dipende dal fatto che mi stai a cuore. Sono giorni che ti vedo triste e molto pensieroso, hai un certo sguardo e ti lasci sfuggire certe parole … insomma, senza altri preamboli e senza girarci intorno, io credo che tu abbia in mente una cattiva intenzione.

Porfirio: Come? Che vuoi dire?

Plotino: Una cattiva intenzione contro te stesso. Nominarla è malaugurio. Suvvia, Porfirio mio, non negare la verità, offenderesti il nostro lungo affetto. So bene che con questo discorso ti procuro un dispiacere, e comprendo che avresti voluto nascondere il tuo proposito, ma in cosa tanto importante io non potevo tacere e tu non dovresti avere a male di discuterne con chi ti ama quanto sé stesso. Ragioniamo con calma e pensiamo ai motivi: tu mi aprirai l’animo, ti dorrai, piangerai, perché io merito questo da te. E infine non intendo impedirti di fare quello che converremo essere ragionevole, e a te utile.

Porfirio: Io non t’ho mai rifiutato qualcosa che tu m’abbia chiesta, Plotino mio. E così ti confesso quel che avrei voluto tener segreto, e che per nulla al mondo confesserei ad altri: quel che hai immaginato è vero. Se desideri che ne ragioniamo, pure se mi ripugna, perché tali decisioni sembrano richiedere un silenzio altissimo e la mente in pensieri del genere ama essere solitaria e più che mai concentrata su di sé, tuttavia, anche in questo sono disposto a fare a modo tuo. Anzi, comincerò io e ti dirò che questa mia inclinazione non nasce da qualche sciagura che m’abbia colpito o stia per colpirmi, ma da un fastidio della vita, da una noia che provo, così violenta, che somiglia a dolore e a spasimo. Non nasce solo da qualcosa che conosco, ma anche dal vedere, assaporare, toccare il vuoto di tutto quel che mi accade. Così, non solo il mio intelletto, ma tutte le sensazioni, anche del corpo, sono, con un modo di dire strano, ma appropriato, piene di questo vuoto. E qui, innanzitutto, non potrai dirmi che questa mia disposizione non sia ragionevole, pur ammettendo che in buona parte proviene da un certo malessere fisico. Nondimeno è ragionevolissima: anzi, eccetto questa, tutte le altre disposizioni degli uomini, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e si ritiene che la vita e le cose umane abbiano qualche consistenza, sono, quale più, quale meno, irragionevoli e si fondano su inganni e false immaginazioni. E nulla è più ragionevole della noia. I piaceri sono tutti vani. Lo stesso dolore dell’animo per lo più è vano, perché la causa e la materia d’esso, a veder bene, sono ben poco o per nulla reali. Lo stesso affermo del timore e della speranza. Solo la noia, che nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non è inganno, non è fondata mai sul falso. E si può dire che, essendo tutto il resto vano, quel che è sostanziale e reale si riduce a noia.

Plotino: Sia pure, per ora non voglio contraddirti su questo, adesso dobbiamo piuttosto considerare il tuo progetto più da vicino e in sé stesso. Non ti ricorderò la sentenza di Platone, che conosci bene, secondo cui all’uomo non è lecito sottrarsi di proprio arbitrio, come un servo fuggitivo, da quel quasi carcere in cui si trova per volontà degli Dei, cioè non gli è permesso uccidersi.

Porfirio: Ti prego, Plotino mio, lasciamo da parte, adesso, Platone, le sue dottrine e le sue fantasie. Altro è lodare, commentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri, altro seguirle nella pratica. A scuola e nei libri, voglio pur approvare i sentimenti di Platone e seguirli, poiché così usa oggi. Nella vita, non è che non li approvo, ma li aborro. Lo so, dicono che Platone nei suoi scritti inserisse quelle dottrine sulla vita futura affinché gli esseri umani, messi in dubbio e sospetto sul loro destino dopo la morte, per quell’incertezza e per il timore di pene e di calamità future, si trattenessero dal commettere ingiustizie e altre cattive azioni. Ma, se credessi Platone autore e inventore di questi dubbi e di queste credenze, direi: “Tu vedi, Platone, quanto, o la natura o il fato o la necessità o qualunque potenza sia autrice e signora dell’universo è stata ed è sempre nemica della nostra specie, della quale molte, anzi innumerevoli, ragioni potranno mettere in dubbio la superiorità che noi, per altri versi, affermiamo di avere sugli altri animali, ma non si troverà ragione che le tolga il primato che già le attribuiva l’antichissimo Omero: quello dell’infelicità. Tuttavia, come medicina di tutti i mali, la natura ci destinò la morte, la quale, da coloro che non usassero molto la ragione sarebbe temuta ben poco, dagli altri sarebbe desiderata, e l’attesa e il pensiero della fine sarebbero un conforto dolcissimo alla nostra vita, piena di così tanti dolori. Ma tu, col dubbio terribile che hai suscitato nelle menti umane, hai tolto da questo pensiero ogni dolcezza e l’hai reso il più amaro. A causa tua, gl’infelicissimi mortali temono più il porto che la tempesta e rifuggono con l’animo dal solo rimedio e riposo che le angosce e gli spasimi della vita riservano loro. Per il genere umano, tu sei stato più crudele del fato, della necessità, della natura. E non potendosi questo dubbio in alcun modo sciogliere, né le menti nostre esserne liberate mai, tu hai reso per sempre ai tuoi simili la morte piena d’affanno e più misera della vita. Perché, per opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza alcun timore, quiete e sicurezza d’animo sono bandite in perpetuo dall’ultima ora degli umani, alla cui infelicità, o Platone, solo questo mancava.
Senza dire che il risultato che t’eri proposto, trattenere l’umanità da violenze e ingiustizie, non si è realizzato, perché quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti nelle ore estreme, quando non si è in condizione di nuocere, nel corso della vita, spaventano spesso i buoni, che non vogliono far del male, ma del bene; spaventano le persone paurose e quelle fisicamente deboli, non inclini alle violenze e alle iniquità, e che non hanno cuore e mano ad esse sufficienti; ma i coraggiosi, i forti e quelli che hanno scarsa immaginazione, insomma, quelli per i quali in generale ci vorrebbe altro freno che la sola legge, non si spaventano per dubbi e credenze, né si frenano dal compiere il male, come vediamo quotidianamente e come mostra l’esperienza di tutti i secoli, dai tuoi tempi fino ad oggi. Le buone leggi, e più ancora la buona educazione, coltivare i costumi e le menti, conservano nella società umana giustizia e mansuetudine, perché gli animi dirozzati e ammorbiditi da un po’ di civiltà e abituati a valutare e a usare un po’ la ragione, quasi necessariamente e quasi sempre, aborriscono il commettere violenze, sono per lo più alieni dal recar danno agli altri, raramente e a fatica s’inducono a correre i pericoli che comporta il contravvenire alle leggi. A produrre questo effetto positivo non sono certo le immaginazioni minacciose e le aspettative crudeli di cose feroci e spaventose, anzi, come accade per la molteplicità e la crudeltà dei supplizi che si usano in certi Stati, quelle accrescono la viltà e la ferocia, cioè le principali nemiche e pesti del consorzio umano.
Ma tu hai descritto e promesso anche una ricompensa per i buoni. E quale? Una condizione che appare piena di noia e ancor meno tollerabile di questa vita. L’asprezza dei tuoi supplizi è evidente, ma la dolcezza dei tuoi premi è nascosta e misteriosa, incomprensibile per la mente umana, perciò quei premi non possono indurci a rettitudine e a virtù. E invero, se pochi sono i ribaldi che, per timore di quel tuo spaventoso Tartaro, si astengono da qualche cattiva azione, oso affermare che mai una persona buona, in un suo minimo atto, operò rettamente per desiderio del tuo Eliso, che non può apparire desiderabile. E non soltanto perfino la certezza di conseguire questo bene sarebbe un conforto minimo, ma poi quale speranza ne hai lasciato anche ai virtuosi e ai giusti, se il tuo Minosse ed Eaco e Radamanto, giudici rigidissimi e inesorabili, non perdonano ombra o traccia di colpa? E chi può sentirsi o credersi così netto e puro come tu richiedi? Sicché, conseguire quella felicità è quasi impossibile, e non basterà la coscienza della vita più retta e dolorosa a rassicurare il moribondo dall’incertezza del suo stato futuro e dallo spavento dei castighi. Così, per le tue dottrine, il timore, infinitamente superiore alla speranza, è divenuto signore dell’uomo, e il genere umano, esempio stupefacente d’infelicità in questa vita, non s’aspetta che la morte sia la fine delle sue miserie, ma di essere, dopo quella, assai più infelice. Col che, tu hai vinto in crudeltà la natura, il fato e anche il tiranno più feroce e il carnefice più spietato mai esistiti.
A quale barbarie si può paragonare il tuo decreto che all’uomo non sia lecito por fine ai suoi patimenti, ai dolori, alle angosce, vincendo l’orrore della morte e privandosi volontariamente della vita? Certo non esiste negli altri animali il desiderio di uccidersi, perché le loro infelicità hanno confini più stretti di quelle umane, e perché gli animali neppure avrebbero il coraggio di uccidersi spontaneamente. Ma, semmai avessero tali disposizioni, non avrebbero impedimento al poter morire: nessun divieto, nessun dubbio toglierebbe loro la libertà di sottrarsi ai mali. Ecco che, anche in questo, tu ci rendi inferiori alle bestie, e quella libertà che potrebbero avere i bruti, quella che la natura stessa, tanto avara verso noi, non ci ha negata, viene meno nell’uomo a causa tua. Così, la sola specie vivente capace di desiderare la propria morte è la sola a non esserne arbitra. La natura, il fato e la fortuna ci flagellano a sangue di continuo, con strazio e dolore inesprimibili: e tu, Platone, accorri e ci leghi strettamente le braccia e ci incateni i piedi in modo che non possiamo difenderci, né ritrarci dai loro colpi. Invero, quando considero la grandezza dell’infelicità umana, penso che se ne debbano incolpare soprattutto le tue dottrine e che gli uomini debbano dolersi molto più di te che della natura. La quale, sebbene, a dire il vero, ci destinò una vita infelicissima, ci diede tuttavia la facoltà di finirla quando ci piacesse. E, tanto per cominciare, non si può dire sia molto grande quella miseria che, se solo si voglia, può durare pochissimo; poi, quando pure la persona di fatto non si decidesse a lasciar la vita, il solo pensiero di potersi sottrarre alla miseria appena volendolo sarebbe tale conforto e tale sollievo dalle sventure, che, grazie ad esso, diventerebbero tutte facili da sopportare. Cosicché, il peso intollerabile della nostra infelicità si deve individuare soprattutto nel fatto che, troncando volontariamente la propria vita, si possa incorrere in pena non solo più grande di quella presente, ma di tale inconcepibile atrocità e lunghezza, che, anche se il presente è certo e quelle pene incerte, tuttavia, ragionevolmente, il timore di quelle, senza proporzione o comparazione alcuna, prevale sul sentimento di qualsiasi male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ti fu ben facile suscitare, ma l’umanità si estinguerà prima ch’esso sia cessato. Perciò nulla è mai nato, nulla mai nascerà così calamitoso e funesto per la specie umana come il tuo ingegno.”
Queste cose direi, se credessi Platone autore o inventore di quelle dottrine, ma so benissimo che non fu lui. In ogni modo, su questa materia abbiamo detto abbastanza e vorrei la mettessimo da parte.

Plotino: Porfirio, io amo veramente Platone, come tu sai. Ma non per ciò voglio discutere appellandomi all’autorità, soprattutto poi con te e in una tale questione; voglio discutere invece sulla base della ragione e, se ho accennato di sfuggita a quella tale sentenza platonica, l’ho fatto più che altro per usare una specie di premessa. E, riprendendo il ragionamento che avevo in animo, dico che, non Platone o qualche altro filosofo soltanto, ma la natura stessa pare c’insegni che il toglierci dal mondo di sola nostra volontà non sia lecito. Non mi dilungo su questo, perché, se ci pensi un po’, è impossibile tu non comprenda da solo che suicidarsi senza necessità è contro natura, o meglio, è l’atto più contrario alla natura. Perché tutto l’ordine delle cose sarebbe sovvertito se esse si autodistruggessero e sembra ripugnare a tale ordine che ci si serva della vita per spegnere la vita, che l’essere serva al non essere. Oltre che, semmai qualcosa ci è comandata dalla natura, con estremo rigore e soprattutto, non solo all’umanità, ma a qualsiasi essere dell’universo, è di prendersi cura della propria conservazione in ogni modo, giusto il contrario dell’uccidersi. E, a parte altri argomenti, non sentiamo forse che per nostra propria inclinazione odiamo la morte, la temiamo e ne abbiamo orrore, anche nostro malgrado? Dunque, poiché uccidersi è contrario alla natura tanto quanto appare evidente, non so dedurne che sia lecito.

Porfirio: Io ho già considerato questo aspetto e, come hai detto, è impossibile che l’animo non lo scorga, per poco che ci si pensi. Mi sembra, tuttavia, che alle tue ragioni si possa rispondere con molte altre e in più modi, ma cercherò d’essere breve. Tu dubiti che ci sia lecito morire senza necessità: io ti domando se ci è lecito essere infelici. La natura vieta l’uccidersi: mi parrebbe strano che, non avendo ella o volontà o potere di farmi né felice, né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. Certo, se la natura ci ha ingenerato amore della nostra conservazione e odio della morte, non ci ha dato meno odio dell’infelicità e amore del nostro meglio. Anzi, tanto maggiori e preminenti queste ultime inclinazioni di quelle, perché la felicità è il fine di ogni nostro atto e di ogni nostro amore e odio e perché non si fugge la morte, né si ama la vita, per sé stessa, ma per riguardo e amore del nostro meglio e odio del male e del danno nostro. Dunque, come può essere contrario alla natura ch’io fugga l’infelicità nel solo modo che ho? Che è quello di togliermi dal mondo, perché, mentre son vivo, non posso evitarla. E com’è possibile che la natura mi vieti di appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio, e di ripudiare la vita, che chiaramente mi è dannosa e malevola, giacché non mi serve che a soffrire, e a questo è evidente che mi serve e conduce?
Plotino: In ogni modo, tutto ciò non mi convince che suicidarsi non sia contro natura, perché il sentire umano manifesta troppa contrarietà e troppo aborrimento verso la morte. E vediamo che le bestie, le quali (quando non siano forzate dagli uomini o sviate) agiscono naturalmente in ogni situazione, non solo non compiono mai a quest’atto, ma, per quanto siano travagliate e misere, se ne dimostrano alienissime. E soltanto fra gli uomini si trova chi lo commette, ma non fra quei popoli che vivono secondo natura, perché tra questi non si troverà chi non lo abomini, ammesso ne abbia nozione o fantasia, bensì soltanto fra i nostri popoli alterati e corrotti, che non vivono secondo natura.
Porfirio: Suvvia, voglio pure concederti che quest’azione sia contro natura, come dici. Ma che conta, se noi non siamo, per così dire, creature naturali? Mi riferisco agli uomini inciviliti. Paragonaci, non ai viventi di qualunque altro popolo, ma a quelli dell’India e dell’Etiopia, che, si dice, ancora serbano costumi primitivi e selvaggi, e a fatica questi uomini e quelli sembreranno della stessa specie. E questa nostra trasformazione, chiamiamola così, questa modificazione di vita, e soprattutto d’animo, ho sempre fermamente creduto che abbia comportato infinito accrescimento d’infelicità. Ovvio che quelle genti selvagge non desiderano mai smettere di vivere! Neppure immaginano che la morte si possa desiderare, invece quelli costumati a modo nostro, che diciamo civili, la desiderano spessissimo e a volte se la procurano. Ora, se è lecito all’uomo incivilito vivere contro natura, e contro natura essere così misero, perché non gli sarà lecito morire contro natura? Giacché da questa nuova infelicità, che deriva dall’alterazione dello stato di natura, non possiamo liberarci che con la morte. Ché tornare a quello stato iniziale e alla vita progettata per noi dalla natura si potrebbe in parte, e forse per nulla, riguardo l’estrinseco; rispetto all’intrinseco, che conta di più, senza dubbio sarebbe impossibile. Cosa è meno naturale della medicina? Tanto la chirurgia, che la farmacia, per lo più, negli effetti, nelle materie, negli strumenti e nei modi che usano, sono lontanissime dalla natura e i bruti e i selvaggi non le conoscono. Tuttavia, poiché anche le malattie alle quali intendono rimediare sono innaturali e causate dalla civiltà, cioè dalla corruzione del nostro stato di natura, queste arti, anche se innaturali, sono e si ritengono opportune e necessarie. Così, l’atto di uccidersi, che libera dall’infelicità recata dalla corruzione, sebbene contro natura, non sarà per ciò da biasimare, poiché mali non naturali chiedono rimedio non naturale. E sarebbe troppo duro e ingiusto che la ragione, la quale, per renderci più miseri di quanto siamo naturalmente, è solita nelle altre cose contrastare la natura, in questa ci si alleasse, per toglierci l’estremo scampo che ci rimane, il solo che la ragione dètta, e ci costringesse a durare nella miseria.
La verità è questa, Plotino. La natura primitiva degli uomini antichi e delle genti selvagge e incolte non è più la nostra, ma l’assuefazione e la ragione ci hanno creato un’altra natura, che abbiamo e avremo per sempre invece della prima. Non era naturale per l’uomo, dapprincipio, procurarsi la morte volontariamente, ma neanche era naturale desiderarla. Oggi, sia questo che quello sono naturali, cioè conformi alla nostra nuova natura, che, tendendo pur’essa e muovendosi necessariamente, come l’antica, verso ciò che appare il nostro meglio, fa sì che spesso noi desideriamo e cerchiamo quel che è davvero il maggior bene dell’uomo, cioè la morte. E non è meraviglia: perché questa seconda natura è governata e diretta soprattutto dalla ragione, la quale considera certo che la morte non solo non è davvero un male, com’era nel sentire primitivo, anzi è il solo rimedio valido ai nostri mali, la cosa più desiderabile per gli uomini e la migliore. Perciò domando: gli uomini inciviliti misurano le altre loro azioni dalla natura primitiva? Quando e quale azione? No, non dalla natura primitiva, ma da questa nuova, o dalla ragione. Perché, allora, soltanto l’atto di togliersi la vita si dovrà misurare, non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva? Perché la natura primitiva, che non dà più regola alla nostra vita, dovrà dare regola alla morte? Perché la ragione non deve governare la morte, dal momento che governa la vita? E noi vediamo, infatti, che sia la ragione sia le infelicità del nostro stato presente, non solo estinguono, soprattutto negli sfortunati e negli afflitti, quell’aborrimento innato della morte che tu dicevi, ma, come ho già detto, lo trasformano in desiderio e amore, che, secondo natura, non sarebbero potuti nascere, ed essendo l’infelicità generata dall’alterazione nostra, e non voluta dalla natura, sarebbero ripugnanza e contraddizione evidenti che permanesse il divieto naturale di uccidersi. Questo mi pare basti per sapere se uccidersi sia lecito. Resta da sapere se sia utile.

Plotino: Di questo non serve mi parli, Porfirio mio, ché, se tale azione fosse lecita (perché una che non sia giusta e retta non ammetto possa essere utile), non dubiterei fosse utilissima. Perché la questione alla fine si riduce a questo: se sia meglio il non soffrire o il soffrire. So bene che il godere congiunto al soffrire, verosimilmente, sarebbe scelto da quasi tutti gli  uomini, piuttosto che non soffrire e non godere: tanto è il desiderio, la sete, per così dire, che l’animo ha di godere. Ma la scelta non è fra questi termini, perché il godimento e il piacere, a parlare propriamente e correttamente, sono impossibili quanto è inevitabile il soffrire. E intendo una sofferenza continua, come continui sono il desiderio e il bisogno che abbiamo del piacere e della felicità, mai adempiuti, pur tralasciando le sofferenze particolari ed accidentali che tutti gli umani sperimentano e che sono ugualmente certe; voglio dire, è certo che ne intervengono, più o meno, d’un tipo o d’un altro, anche nella vita più fortunata del mondo. E in verità, una sofferenza unica e breve, che la persona fosse certa dovesse durare per il resto della vita, sarebbe sufficiente a far sì che, secondo ragione, la morte fosse da preferire alla vita, perché questa sofferenza non avrebbe compensazione, dal momento che nella nostra vita non può esserci un bene o un piacere vero.
Porfirio: A me pare che la noia stessa e il ritrovarsi senza speranza di stato e fortuna migliore bastino a generare il desiderio di finire la vita, non dico a chi si trovi in stato e fortuna non cattivi, ma pure prosperi. E sovente mi sono meravigliato che in nessun luogo siano citati prìncipi che abbiano voluto morire soltanto per noia e per sazietà della propria condizione, come si legge e si ode continuamente di persone comuni. Come coloro che, udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare le sue famose lezioni sulla miseria della vita, uscendo dalla scuola, andavano e si uccidevano, onde Egesia fu soprannominato il persuasor di morire; e si dice, come credo tu sappia, che infine il re Tolomeo gli vietò di disputare ancora su quel tema. E, sebbene si trova di alcuni, come di Mitridate, di Cleopatra, di Ottone romano, e forse di alcuni altri prìncipi, che si uccisero da sé stessi, costoro ne furono indotti dal trovarsi allora in avversità e miserie, e per sfuggirne di più gravi. Ora mi sarebbe parso credibile che i prìncipi più facilmente degli altri concepissero odio del loro stato e fastidio d’ogni cosa e desiderassero morire, perché, essendo in cima a quella che si dice felicità umana, potendo sperare pochi altri o forse nessuno di quelli che si chiamano beni della vita, poiché li posseggono tutti, non possono promettersi il domani migliore dell’oggi, e il presente, per fortunato che sia, è sempre cattivo e inamabile: solo il futuro può piacere. Ma sia pure. Infine, noi possiamo renderci conto che, eccetto il timore delle cose di un altro mondo, quello che trattiene gli uomini da abbandonare la vita spontaneamente e quello che li induce ad amarla e a preferirla alla morte non è che un semplice ed evidentissimo errore, per così dire, di calcolo e di misura che si fa nel calcolare, nel misurare e nel paragonare fra loro gli utili e i danni. Errore che ha luogo, si potrebbe dire, ogni volta che si abbraccia la vita, ovvero si consente a vivere e ce ne si contenta, sia che si faccia col giudizio e con la volontà, che con il solo atto di abbracciarla. 
Plotino: Così è davvero, Porfirio mio. Tuttavia, lascia che ti consigli e sopporta pure che ti preghi su questo tuo progetto di ascoltare la natura invece della ragione. Intendo quella natura primitiva, quella madre nostra e dell’universo, la quale, sebbene non abbia mostrato d’amarci e ci abbia fatti infelici, tuttavia, ci è stata assai meno nemica e malefica di quanto siamo stati noi col nostro ingegno, con la curiosità incessabile e smisurata, con le speculazioni, coi discorsi, coi sogni, con le opinioni e le dottrine misere. E in particolare, ella si è sforzata di medicare la nostra infelicità nascondendone, o trasfigurandone, ai nostri occhi, la maggior parte. E, benché il nostro mutamento sia grande e sia diminuita in noi la potenza della natura, pure, essa non è annullata, né siamo cambiati e innovati tanto che non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, malgrado quel che possa operare la nostra stoltezza, non potrà mai cambiare . Ecco quello che tu chiami errore di calcolo: davvero errore, tanto grande quanto palpabile, tuttavia commesso continuamente, e non soltanto dagli stupidi e dagli idioti, ma dagli intelligenti, dai dotti, dai saggi, e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa, e non certo la ragione e le opere degli uomini, non lo spegne. E credimi, non vi è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo, non odio del mondo e di sé che possa durare molto, pure se queste disposizioni dell’animo sono ragionevolissime e quelle opposte irragionevoli. Perché, malgrado tutto, trascorso qualche tempo, cambiata lievemente la disposizione del corpo, a poco a poco, e spesso in un attimo, per ragioni minime e a stento rilevabili, il gusto della vita rinasce, nasce ora questa, ora quella speranza nuova e le cose umane riprendono la consueta apparenza e si mostrano non indegne di qualche cura; non all’intelletto, in verità, ma, per così dire, al sentimento dell’animo. E ciò basta a fare che la persona, pure ben consapevole e convinta della verità, tuttavia, malgrado la ragione, perseveri nella vita e continui in essa come fanno gli altri: perché è quel certo sentimento, si può dire, e non l’intelletto, a governarci.
Sia ragionevole l’uccidersi, sia contro ragione adattare l’animo alla vita, certamente uccidersi è un’azione feroce e disumana. E non si deve preferire, né scegliere, di essere un mostro secondo ragione, piuttosto che umano secondo natura. E poi, non vorremo avere alcuna considerazione degli amici, dei consanguinei, dei figli, dei fratelli, dei genitori, della moglie, delle persone familiari e domestiche con le quali viviamo da gran tempo, che, morendo, dobbiamo lasciare per sempre? E non sentiremo in cuor nostro alcun dolore per questa separazione, né terremo conto di quello che essi proveranno, sia per la perdita di persona cara o con cui si ha frequentazione, che per l’atrocità del caso? So bene che l’animo del sapiente non deve essere troppo molle, né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio tanto da esserne turbato, da cadere a terra, da cedere e da venir meno come vile, da abbandonarsi a pianti eccessivi, ad atti indegni della fermezza di chi ha piena e chiara conoscenza della condizione umana. Ma questa forza d’animo va usata nei casi tristi e non evitabili che manda la fortuna, non dobbiamo abusarne per privarci spontaneamente per sempre della vista, del colloquio, della compagnia dei nostri cari. Considerare nulla il dolore della separazione e della perdita dei parenti, degli intimi, dei compagni, o non sentirne dolore alcuno, non è da sapiente, ma da barbaro. Non curarsi di addolorare col proprio suicidio gli amici e i familiari è di chi non cura gli altri e cura troppo sé stesso. E invero, chi si uccide non ha cura né pensiero alcuno degli altri, cerca soltanto la propria utilità. Si getta, per così dire, dietro le spalle i più prossimi e tutto il genere umano e, nell’atto di privarsi della vita si manifesta il più schietto, il più sordido, o certo il meno bello e meno generoso amore di sé che si trovi al mondo.
Infine, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, quando, come ora per te, non recano infortuni e calamità straordinari o dolori acerbi del corpo, non sono difficili da tollerare, specie per un uomo saggio e forte come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo non dovrebbe esser molto sollecito né di tenerla, né di lasciarla. Perciò, senza valutare troppo, dovrebbe accettare di cogliere ogni lieve motivo di appigliarsi a quella prima natura, invece che a questa nuova. E, pregatone da un amico, perché non dovrebbe compiacerlo? Ora io ti prego con affetto, Porfirio mio, per la memoria della nostra lunga amicizia, deponi codesto pensiero; non voler essere causa di questo gran dolore ai tuoi buoni amici, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Aiutaci a sopportare la vita, invece di abbandonarci senza pensare a noi. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci a vicenda; non rifiutiamo di portare i mali che il destino ci ha assegnato, invece, teniamoci compagnia, incoraggiamoci, diamoci l’un l’altro aiuto e soccorso per compiere nel miglior modo questa fatica della vita, che senza dubbio sarà breve, e quando la morte verrà, allora non ci dorremo, e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno. E ci rallegrerà il pensiero che, quando saremo spenti, essi ci ricorderanno spesso e ci ameranno ancora.




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